giovedì 15 dicembre 2016

Ancora un ALTRO referendum?

Lo ha chiesto la CGIL per abrogare pezzi del Jobs Act, tra 20 giorni la Consulta deciderà se è ammissibile o no: ma se ci saranno elezioni anticipate sarà sospeso

(ANSA/ANGELO CARCONI)

Mercoledì 14 dicembre la Corte Costituzionale ha annunciato che il prossimo 11 gennaio esaminerà l’ammissibilità di tre quesiti referendari che vorrebbero abrogare una parte della riforma del lavoro approvata dal governo Renzi nel 2014, il cosiddetto “Jobs Act”. Il referendum è stato promosso dalla CGIL – il più grande sindacato italiano, anche se la maggioranza dei suoi iscritti sono pensionati – che ha raccolto tre milioni di firme. I referendum proposti sono abrogativi: chi vuole cancellare le parti dela legge dovrebbe votare Si, il risultato sarebbe valido soltanto se dovessero votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto. Se i quesiti saranno accolti dalla Corte, i referendum potrebbero tenersi tra il prossimo 15 aprile e il prossimo 15 giugno.

Il primo quesito chiede di eliminare le norme che prevedono un indennizzo economico per i lavoratori licenziati senza giusta causa, al posto dell’obbligo di reintegro. Il secondo ha lo scopo di eliminare il lavoro accessorio, quello che viene pagato con i cosiddetti “voucher“. L’ultimo quesito riguarda la reintroduzione della “responsabilità solidale” negli appalti, una norma tecnica che impone a committenti e subappaltatori di verificare che le società con cui lavorano siano in regola coi pagamenti dei contributi prima di procedere al pagamento.

La riforma del lavoro è uno dei risultati più importanti ottenuti dal governo Renzi: l’abrogazione di alcune sue parti sarebbe una sconfitta per lui, per il PD e per la maggioranza che lo ha sostenuto. Secondo giornalisti ed esperti una nuova sconfitta del governo ai referendum sarebbe molto probabile, anche perché i favorevoli al Si all’abrogazione sono gli stessi partiti e gruppi che hanno portato alla vittoria del No al referendum Costituzionale del 4 dicembre. Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, ha già detto: «Noi voteremo contro il Jobs Act. Renzi è un politico eversivo e noi stiamo con la democrazia. Stavolta però non vinceremo 60 a 40. Finirà 70 a 30 per noi». Anche se Lega Nord e Movimento 5 Stelle non si sono ancora espressi apertamente, è molto probabile che sosterrebbero anche loro il Sì, così come faranno l’estrema sinistra e parte della minoranza del PD.

Al momento, però, sembra improbabile che il referendum si svolga davvero la prossima primavera. Il segretario del PD Matteo Renzi e numerosi esponenti del suo partito vengono raccontati come favorevoli ad andare a elezioni anticipate, possibilmente in coincidenza con le elezioni amministrative della prossima primavera, quando si voterà in circa mille comuni (i giornali dicono che si parla già del 25 giugno come data possibile). La legge prevede che in caso di scioglimento anticipato delle camere i referendum siano da considerarsi automaticamente sospesi.

Questa osservazione è stata fatta ieri all’ANSA dal ministro del lavoro Giuliano Poletti: «Mi sembra che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto, quindi prima del referendum sul Jobs Act. Se si va al voto prima del referendum, il problema non si pone». L’opposizione ha immediatamente attaccato Poletti, accusando il governo di voler usare le elezioni anticipate per evitare una nuova sconfitta referendaria. È un’accusa strana, però, perché il governo così facendo si farebbe da parte prima ancora di sapere come finirebbe il referendum; e inoltre sono le stesse opposizioni a chiedere continuamente di andare a votare subito, il prima possibile, e la cosa causerebbe l’automatica sospensione del referendum. Come ha notato Poletti ieri sera: «Le mie affermazioni non sono altro che l’ovvia constatazione che, qualora si andasse a elezioni politiche anticipate, la legge prevede il rinvio del referendum».

Se invece la legislatura dovesse proseguire senza scioglimento anticipato, il referendum a primavera sarebbe il terzo consecutivo nel giro di un anno, dopo quello sulle “trivelle” dello scorso aprile e quello costituzionale del 4 dicembre scorso.

Fonte: Il Post

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