martedì 28 luglio 2015

Atac, i numeri di un fallimento


Di Paolo Ribichini

Tra il funzionare male e il non funzionare proprio c’è una bella differenza. È quello che sta succedendo all’Atac di Roma, municipalizzata per il trasporto pubblico, nell’ultimo mese. L’organizzazione non è mai stata il suo forte. Corse di bus saltate, manutenzione approssimativa, controllori inesistenti, qualche metropolitana senza l’aria condizionata. Ma la vita a Roma è sempre andata avanti. Quello che però è successo dal 1° luglio ad oggi poco c’entra con le inefficienze di sempre.

Numeri di uno sfascio. L’Atac ha un numero di dipendenti pari a quello di Alitalia. Non ha aerei, ma talvolta carri bestiame. Rimane, però, il fatto che alla fine del mese vanno pagati gli stipendi. Così, anche a causa del fatto che solo il 60% degli utenti paga il biglietto – secondo le stime della Stampa –, l’azienda si ritrova con un passivo di 141 milioni. La situazione dei mezzi è disastrosa anche se negli ultimi due anni sono state acquistate nuove e moderne vetture. Circolano ancora vecchi tram e treni (Roma-Lido, Metro B e Laziali-Giardinetti e la linea urbana della Roma-Viterbo) senza aria condizionata, spesso guasti e sempre e costantemente in ritardo, il 40% degli autobus è fermo ai depositi poiché non sono riparabili (spesso mancano i pezzi di ricambio). Inoltre, gli autisti e i conducenti lavorano circa 700 ore l’anno (i rispettivi colleghi milanesi 1.200 ore) e, sempre secondo le stime della Stampa, il 70% dei giorni di malattia si verificano a ridosso dei turni di riposo. Ma quale privato investirebbe in una situazione del genere?

Ripartire dai controlli. Insomma, la responsabilità dello sfascio di Atac è di tutti: azienda, autisti e anche utenti che non pagano il biglietto. Da dove ripartire? Innanzitutto dai controlli. È inaccettabile che il numero dei controllori su un territorio enorme come il comune di Roma siano solo 300. L’azienda ha circa metà del personale in uffici (a ricoprire quali mansioni, poi, è un mistero) e parte di questo potrebbe essere impiegato sotto le metropolitane e sugli autobus per i dovuti controlli. In una città dove il senso civico appartiene solo alla metà dei cittadini, l’unica strada per contrastare i “portoghesi” è lo “stato di polizia”. Poi, però, servono controlli interni, magari demandati a personale esterno (funzionari e dirigenti comunali, per esempio), che deve verificare il livello di produttività di ogni singolo dipendente di Atac. Non basta il badge. Chi non lavora va a casa. Si può iniziare dal personale di controllo nelle stazioni della metro, troppo spesso impegnato con cruciverba, telefonate e test per concorsi. La sua presenza nelle stazioni della metro è del tutto superflua.

Il problema dei sindacati. Ma tutto questo sarà possibile solo con il via libera dei sindacati. È chiaro a tutti – dopo questo mese di luglio – che hanno il potere di mettere in ginocchio una città. Per questo si può aprire un tavolo di concertazione dove il sindaco deve fare un discorso chiaro: “O accettate i cambiamenti proposti o portiamo i libri in tribunale e tutti a casa”. E si riparte dai privati. Un ricatto? In parte sì. Ma nulla di scandaloso. Michele Emiliano a Bari ha detto più o meno le stesse parole. Il risultato? L’azienda pubblica ha iniziato a funzionare.

Fonte: Diritto di critica

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