sabato 28 febbraio 2015

Perché l’Isis distrugge le statue

Il Profeta ha vietato la riproduzione di figure umane e animali, ma il video dello Stato Islamico ha anche un altro fine


Maometto era un iconoclasta e distruggeva quelli che riteneva i falsi idoli delle religioni concorrenti, così ora gli estremisti dell’Isis prendono l’esempio alla lettera, ma solo fino a un certo punto.


PERCHÉ SPACCANO TUTTO - Gli uomini del califfato seguono una dottrina fondamentalista sunnita secondo la quale è vietata qualsiasi riproduzione di esseri umani o animali, tanto più se raffigurazioni di divinità, una vera eresia. Lo spiegano anche nel video che tanto scandalo ha destato ieri con la sua pubblicazione: «Queste rovine dietro di me, sono quelle di idoli e statue che le popolazioni del passato usavano per un culto diverso da Allah. Il Profeta Maometto ha tirato giù con le sue mani gli idoli quando è andato alla Mecca. Il nostro Profeta ci ha ordinato di distruggere gli idoli e i compagni del Profeta lo hanno fatto quando hanno conquistato dei Paesi. Quando Dio ci ordina di rimuoverli e distruggerli, per noi diventa semplice e non ci interessa che il loro valore sia di milioni di dollari».

IL PROFETA LO VUOLE - La motivazione dottrinaria è la stessa che spinse i talebani a distruggere le statue di Buddha di Bamyan in Afghanistan, ma in questo caso nel video c’è anche un messaggio che tra le righe prende le distanze dalle accuse rivolte all’ISIS di finanziarsi anche attraverso il traffico illegale del patrimonio archeologico di Siria e Iraq. Fonti irachene hanno reagito dichiarando che molti dei pezzi più pregiati sono già stati asportati ed esportati. Pezzi dal valore incalcolabile sia per la fattura che per la loro storia, essendo vestigia di popoli che in Mesopotamia hanno contribuito a porre le basi della civiltà moderna e a portare l’umanità fuori dalla preistoria.

LEGGI ANCHE: L’ISIS mostra la distruzione del patrimonio archeologico di Ninive

LA PROPAGANDA DELLA PUREZZA - Un tale mercimonio però incrinerebbe l’immagine intransigente dell’organizzazione ed ecco allora che il video diventa l’occasione per dichiarare, e in parte dimostrare, che i pii maomettani non fanno caso al volgar denaro quando c’è da seguire l’esempio del Profeta. Esempio peraltro molto disputato all’interno della stessa comunità musulmana, se è vero che in Arabia Saudita il governo ha provveduto a cancellare le tracce delle civiltà precedenti la venuta di Maometto, è altrettanto vero che in tutti gli altri paesi a maggioranza musulmana non accade niente del genere. Non per niente le vestigia irachene resistono da secoli intonse, e anzi custodite e valorizzate, in una regione a maggioranza sunnita.

Fonte: Giornalettismo

venerdì 27 febbraio 2015

La guerra di Tsipras


Una vittoria a metà quella di Alexis Tsipras, anzi, forse qualcosa di meno. La bozza di riforme presentata alla Commissione europea il 24 di febbraio ottiene certamente due cose.

Cosa ottiene Tsipras. Innanzitutto, il prestito ponte di quattro mesi fondamentale per mandare avanti uno Stato con le casse vuote, un obiettivo che andava centrato a tutti i costi. La valutazione positiva della verifica del programma - che scade il 28 febbraio - porterà alla concessione della tranche finale da 7 miliardi di euro. Una seconda nota positiva per Tsipras è l’aver messo la Grecia nella condizione di poter trattare scrivendo gli accordi in prima persona, in parte recuperando la propria dignità nazionale e abbandonando il ruolo passivo avuto nel recente passato. Per il resto francamente non sembra esserci gran che di cui rallegrarsi.

La Troika è viva e vegeta. Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis hanno sbattuto contro un muro: la Troika (Ue, Fmi, Bce) esiste eccome e la Grecia deve farci i conti. Chiamare istituzioni i vecchi creditori suona solo come il contentino da dare in pasto all’opinione pubblica.

La realtà vista dalla prospettiva delle “istituzioni” è molto diversa. Perché il documento con cui Atene si impegna a onorare i debiti e rispettare gli obiettivi di bilancio è valutato come “un buon punto di partenza” e nulla più. Un termine che contrariamente alle apparenze non nasconde nulla di buono. È la premessa a una revisione dei contenuti e al fatto che ci sarà molto da dire, ma soprattutto molto da fare.

Dalla teoria alla pratica sotto il controllo delle “istituzioni”. In attesa del voto sul documento da parte dei parlamenti nazionali (quello tedesco dovrebbe avvenire venerdì), la Ue raccomanda ad Atene di “sviluppare ulteriormente e ampliare l’elenco delle misure di riforma, in base alla disposizione attuale, in stretto coordinamento con le istituzioni al fine di consentire una conclusione rapida e positiva della revisione”. L’Eurogruppo ha fatto sapere che le istituzioni faranno un esame più approfondito del piano di riforme, «al più tardi entro la fine di aprile».

Ad aprile quindi si vedrà come le promesse saranno effettivamente messe in pratica, Tsipras dovrà mettere nero su bianco il modo in cui proseguirà la sua linea di governo e soprattutto restituirà i soldi. Adesso l’enunciazione di quel che si farà va benissimo - e secondo Draghi e Lagarde, numeri uno di Bce e Fmi, neanche troppo - ma il nodo cruciale della questione resta sempre il come. Le misure sono ottime linee generali, il problema restano i numeri e le stime delle coperture, al momento cifre non ce ne sono.

E se il terribile memorandum che, forse per delicatezza, non viene mai nominato rimane in piedi sotto tutti i profili, del programma elettorale resta ben poco, a parte il tentativo di aumentare il salario minimo all’interno di un bilanciamento tra flessibilità e equità nella contrattazione collettiva. Fermo restando che anche l’aumento del salario minimo richiederà una consultazione preventiva con le istituzioni europee.

Cosa resta del programma. E mentre Tsipras garantisce che “la lotta alla crisi umanitaria non avrà effetti negativi per il bilancio”, del programma fortemente sociale di Syriza non rimane granché. La spesa sanitaria verrà rivista, ma “l’accesso universale” resterà garantito. E, tra le misure per le fasce più deboli, compaiono i buoni pasto, energia e sanità per i poveri.

Riforme? Si ritoccherà l’Iva affinché non provochi un “impatto negativo sulla giustizia sociale”, mentre il fisco si farà più aggressivo con le lobby: l’intento è quello di mettere fine agli “sconti ingiustificati” a favore di coloro che finora l’hanno sempre passata liscia. Lotta senza tregua alla frode e all’evasione fiscale, assicurando in generale “che tutte le aree della società, specialmente le benestanti, contribuiscano equamente”. Contestualmente al taglio delle spese per ministri e parlamentari, i ministeri caleranno da 16 a 10 e si attuerà una spendig review che investirà “ogni area della spesa pubblica” aggredendo, ovunque sia possibile, quel 56% del totale delle spese dei ministeri che non va a pagare salari e pensioni.

La Grecia ha promesso di mantenere le “privatizzazioni già completate” e di portare a compimento, secondo i termini di legge, “quelle per cui è stato pubblicato il bando”, mentre “rivedrà quelle non ancora lanciate puntando a migliorare i benefici a lungo termine per il Governo”. Come accennato, a livello di numeri c’è poco o nulla, anche se nei giorni scorsi erano affiorati particolari. Si era parlato di una patrimoniale da 2 miliardi e mezzo per i ricchi lobbisti e gli armatori. A cui se ne aggiungerebbero altrettanti - per un totale di 5 miliardi - dal recupero di tasse arretrate non pagate da persone e imprese.

La lotta senza quartiere al contrabbando potrebbe portare poco meno di due miliardi e mezzo: 1,5 miliardi dal contrabbando della benzina e altri 800 milioni da quello delle sigarette. Altri due miliardi, forse 2,5, verrebbero recuperati sul fronte dell’evasione fiscale, attraverso l’adozione di nuove misure utili a rendere più funzionali i controlli.

Dubbi e incertezze. Al momento si tratta di cifre che, però, non possono essere contabilizzate ed appaiono assolutamente incerte. L’idea è che se ne rendano conto un po’ tutti e che presto si tornerà a discutere ancora delle riforme greche. Del resto, se la nostra economia, ad esempio, è 10 volte quella greca e con mezzi di controllo fiscale nettamente più stringenti noi riusciamo a tirare fuori 6-7 miliardi di euro, è lecito pensare che i greci, qualora fossero in possesso dei nostri stessi mezzi, potrebbero portare a casa settecento milioni all’incirca.

Gli oligarchi sul piede di guerra. Ma non solo, la patrimoniale ai miliardari e agli armatori greci, gli oligarchi in perenne conflitto d’interessi, che hanno sempre goduto di vantaggi e impunità pressoché totali non sarà semplice da attuare. In caso di tassazione gli armatori hanno già minacciato di piazzare le loro navi nei porti di altri paesi e di spostare le attività all’estero. Considerando che la disastrosa economia greca ha però il primato della flotta commerciale più grande del mondo, questa minaccia potrebbe porre dei grossissimi interrogativi.

Syriza a rischio spaccatura. Senza considerare che Tsipras avrà un problema in più. Dentro Syriza i malumori crescono, mentre l’ala più dura e meno propensa al compromesso parla senza mezzi termini di “tradimento”.

Dopo l’euro deputato Manolis Glenzos, l’eroe nazionale della resistenza contro il nazismo e il regime dei colonnelli, che ha chiesto scusa agli elettori per aver disatteso le promesse elettorali: “chiedo scusa ai greci per l’illusione di Syriza“, contro Tsipras ha tuonato anche il famoso compositore Mikis Theodorakis - autore anche delle musiche di Zorba il Greco - che ha criticato duramente la riproposizione del memorandum imposto dalla Troika, chiedendo di riprendersi davvero la sovranità nazionale “di cui non ho sentito fino ad ora a parlare”. Ma il forte malessere potrebbe addirittura sfociare nella spaccatura del partito.

Adesso chi vota le riforme? Il momento del Paese consiglierebbe un minimo in più di realismo politico e qualche attenuante per Tsipras e Varoufakis, i quali, oltre ai “rigoristi” nordeuropei, hanno avuto contro anche i governi dei Paesi in difficoltà che temono l’avanzata delle forze no euro. Tuttavia per i due giovani politici senza cravatta il problema si chiama ancora una volta riforme. Se è vero, infatti, che una parte di Syriza avrebbe promesso le barricate contro un “memorandum 2” e la richiesta della Troika di più riforme, chi voterà a favore degli impegni? L’esecutivo di Tsipras potrebbe essere costretto a un accordo con quella vecchia politica che ha gettato la Grecia nel tunnel. Costretto a votare i provvedimenti assieme ai partiti che hanno falsificato i bilanci e svenduto la dignità di un popolo. Per Tsipras potrebbe essere questa la vera sconfitta.

Fonte: Diritto di critica

giovedì 26 febbraio 2015

Donne iraniane senza hijab

Una giornalista iraniana ha vinto il premio per i diritti delle donne, invitandole a posare senza hijab

di Anna Ditta


La giornalista iraniana Masih Alinejad ha ricevuto un premio per i diritti umani per aver creato una pagina Facebook che invita le donne iraniane a inviare foto di se stesse senza hijab, a dispetto delle norme che impongono loro di indossarlo.

La giornalista iraniana ha lanciato la pagina Facebook My Stealthy Freedom lo scorso anno, attirando più di mezzo milione di persone in poche settimane. Da quel momento migliaia di donne hanno inviato loro foto senza hijab da pubblicare.

Il vertice di Ginevra per i diritti umani e la democrazia, un gruppo formato da 20 organizzazioni non governative, ha conferito a Masih Alinejad il premio per i diritti delle donne per "dare voce a chi non ha voce e scuotere la coscienza dell'umanità per sostenere la lotta delle donne iraniane per i diritti umani fondamentali, la libertà e l'uguaglianza."

Sulla pagina Facebook decine di donne iraniane continuano a pubblicare foto che le ritraggono nei momenti privati in cui tolgono il velo, sfidando il divieto imposto dal governo di Teheran. Le foto mostrano donne sulla spiaggia, per strada, in campagna, da sole, con amici o parenti. Tutte senza il velo.

Spesso le foto sono accompagnate da frasi come: "Detesto l'hijab. Adoro la sensazione del sole e del vento sui miei capelli. É questo un grande peccato?” Oppure: "Cerco di vivere questa libertà segreta ogni giorno. A volte arriva la pace, a volte la paura. Queste piccole azioni potrebbero sembrare così banali, ma sono vitali per la tua anima".

Masih Alinejad è una giornalista iraniana esule a Londra. Alinejad ha postato sul suo profilo Facebook alcune foto in cui era senza hijab. Le immagini hanno ricevuto migliaia di like e hanno spinto altre donne a inviare foto simili. La giornalista ha quindi deciso di aprire la pagina dedicata a queste foto e a lanciare una campagna, che ha riscosso successo anche su Twitter con l’hashtag #stealthfreedom.

Alinejad è nota per le critiche mosse al governo iraniano, ma insiste sul fatto che questa campagna non è politica. Le donne che hanno condiviso le loro foto non sono attiviste, ma semplici cittadine. “Non ho alcuna intenzione di incoraggiare le persone a sfidare l'obbligo di portare l'hijab o a lottare contro di esso", ha detto al Guardian. "Voglio solo dare voce alle migliaia e migliaia di donne iraniane che pensano di non avere nessuna piattaforma per dire la loro".

Alinejad non si è oppone al hijab, ma crede che la gente dovrebbe avere la libertà di scegliere: “Voglio vivere in un paese dove io, che non porto l'hijab, e mia sorella, che lo preferisce, possiamo vivere insieme", ha spiegato.

Non è la prima volta che proteste simili si diffondono nel paese, ma nessuna finora aveva coinvolto così tante persone. In Iran alle donne è proibito stare in pubblico a capo scoperto dalla rivoluzione islamica del 1979. Chi disobbedisce a questa regola deve pagare una multa, ma rischia anche di finire in prigione.

Nell’ottobre del 2013 il presidente iraniano Hassan Rohani, che nell’ultima campagna elettorale aveva promesso una maggiore apertura culturale, ha chiesto alla polizia di essere più indulgente con le donne rispetto alla questione dell’hijab. Tuttavia sono ancora molti quelli che vogliono che il velo sia obbligatorio e sottolineano la sua importanza per la legge islamica. Il 6 maggio a Tehran centinaia di persone hanno manifestato contro la trasgressione di questa norma.

Fonte: The Post Internazionale

mercoledì 25 febbraio 2015

Cosa succede in Venezuela


Uno studente durante una manifestazione a San Cristóbal, nello stato di Táchira, in Venezuela. George Castellano, Afp

  • Un ragazzo di 14 anni, Kluivert Roa, è morto durante una protesta a San Cristóbal, nello stato occidentale di Táchira, in Venezuela, al confine con la Colombia. È stato ucciso da un proiettile che lo ha colpito alla testa, durante violenti scontri tra polizia e manifestanti.
  • È stato arrestato un agente per la morte del ragazzo. Il poliziotto Javier Mora Ortiz, 23 anni, ha detto di aver sparato dei proiettili di gomma per disperdere la folla.
  • Il presidente Nicolás Maduro ha condannato l’omicidio dicendo che “se qualsiasi funzionario per qualsiasi ragione commette un crimine, io sono il primo a chiedere che venga arrestato. In Venezuela la repressione armata è proibita”.
  • In Venezuela è vietato l’uso di armi da fuoco durante la manifestazione, ma il 30 gennaio è stato approvato un decreto che consente all’esercito di usare le armi durante le manifestazioni in caso di pericolo per gli agenti.
  • Il governatore dello stato di Miranda, Henrique Capriles, uno dei principali oppositori del governo di Maduro, ha accusato il governo di reprimere nel sangue le proteste.
  • Nelle ultime settimane sono ricominciate le proteste in tutto il paese contro il governo. I motivi delle manifestazioni sono l’alto tasso di criminalità, la carenza di prodotti di base come latte e carta igienica, i frequenti blackout, l’alto tasso d’inflazione provocato anche dal crollo del prezzo del petrolio e la repressione politica dei dissidenti.
  • Le proteste sono state scatenate anche dall’arresto avvenuto il 20 febbraio del sindaco di Caracas Antonio Ledezma, uno dei leader dell’opposizione, accusato di aver organizzato un colpo di stato.
  • Nel febbraio del 2014 lo stato di Táchira, in Venezuela, è stato l’epicentro di un’ondata di proteste contro il governo. Nelle proteste, durate quattro mesi, sono morte 43 persone.

Bbc

Fonte: Internazionale

martedì 24 febbraio 2015

Taiwan fra città globalizzate e villaggi aborigeni


Martina è partita nell’estate 2014 per un progetto di volontariato di sei settimane in Taiwan dal nome: Embrace Taiwan-explore colorful culture. Il progetto era diviso in due parti: due campi scuola con bambini e ragazzi, e successivamente l’affiancamento ad un professore di lingua inglese presso la scuola elementare. “Sono entrata per caso a conoscenza di AIESEC e quando me ne hanno parlato quasi non ci credevo: non era possibile che un’associazione di soli studenti ti permettesse di fare tutto questo. Sono partita senza sapere cosa fosse, ma già dalla prima settimana, attraverso il comitato locale, ho direttamente vissuto lo spirito di AIESEC e ne ho compreso il potenziale”.

La prima cosa che Martina ci dice è che l’esperienza ha superato di gran lunga le sue aspettative, sia per il progetto di volontariato in sé, con la conoscenza di altre culture e la scoperta di un paese completamente diverso, che per il comitato, che le ha fatto conoscere il mondo dell’associazione e i suoi ideali. Del progetto le sono piaciuti soprattutto i campo scuola con i ragazzi, la timidezza del primo giorno e la curiosità nei giorni successivi, che le hanno permesso di condividere le esperienze e avvicinarsi alla cultura del luogo. “L’esperienza è stata indimenticabile anche per l’approccio con una cultura completamente diversa dalla nostra, sia in famiglia che fuori”, ci racconta Martina, “Il paese vive due realtà disomogenee: le città sono più globalizzate e vicine a noi, mentre i villaggi, sebbene altrettanto avanzati, sono molto diversi. Ci sono festività differenti e sono ancora presenti popolazioni aborigene, che non sono, come comunemente si pensa, indietro nel progresso, ma semplicemente hanno mantenuto uno stile di vita che risale alle origini del paese stesso, con la loro cultura, il calendario lunare, gli abiti tradizionali e le vecchie ricette.” ci spiega. “La cosa più difficile, ma anche più divertente, è stata cercare di far capire alla gente del luogo che alcune credenze sull’Italia non fossero vere. All’inizio la mentalità e la cultura diversa ti spaventano perché hai paura di essere trattato da straniero, e invece ti accolgono tutti. Le famiglie che ci ospitavano, soprattutto, si sono molto legate a noi e ci tenevano a farci sentire sempre a nostro agio, ci riempivano di regali e la mia hosting family si è anche commossa quando sono ripartita. Il comitato locale poi era sempre presente, ci seguiva nel progetto e ci portava a visitare il paese; sono stati la loro generosità nonostante le differenze culturali, e il loro impegno per l’associazione a spingermi a entrare a far parte del mio comitato locale una volta tornata in Italia, perché secondo tutti dovrebbero conoscere AIESEC e partire. É un’esperienza bellissima, che consiglio a tutti di fare!” conclude Martina.

Fonte: OltremediaNews

lunedì 23 febbraio 2015

È morto l’ex pentito di camorra Carmine Schiavone


È morto Carmine Schiavone, ex boss del clan dei Casalesi, a lungo collaboratore di giustizia.

Carmine Schiavone aveva iniziato a collaborare con la Dda di Napoli nel 1993 e da alcuni anni era uscito anche dal programma di protezione per i pentiti. Da allora era stato più volte intervistato sulle responsabilità della criminalità organizzata nel ciclo della gestione dei rifiuti. Il suo nome era tornato di attualità nel 2013 quando, dopo la desecretazione degli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti, era diventata di dominio pubblico la sua audizione del 1996 in cui parlava del sversamento illegale di rifiuti tossici e pericolosi in alcune zone della cosiddetta 'Terra dei fuochi', tra le province di Caserta e Napoli.







domenica 22 febbraio 2015

Città ribelli

Voglio consigliarvi un libro. Città ribelli di David Harvey, geografo, sociologo e politologo britannico. Harvey esamina gli effetti delle politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana. E - dalla Comune di Parigi del 1871 alla New York di OWS - ricostruisce i modi in cui le città si sono riorganizzate, e come potrebbero farlo, per diventare più inclusive e giuste.

Un secolo e mezzo prima che Occupy riempisse le strade e le piazze del mondo, la città moderna era già fucina di idee rivoluzionarie, e fu dallo spazio urbano che soffiarono i primi venti del cambiamento sociale e politico. Da sempre le città sono teatri che mettono in scena il pensiero utopico, ma anche centri di accumulazione capitalistica, e quindi spazi di conflitto contro quei pochi che, controllando l’accesso alle risorse comuni, determinano la qualità della vita di molti.
L’urbanizzazione ha giocato un ruolo primario nell’assorbimento del surplus di capitale, alimentando processi di «distruzione creatrice» che hanno sottratto alle masse il diritto di costruire e ricostruire le proprie città. Questo conflitto latente è esploso periodicamente in grandi rivolte popolari, come nella Comune di Parigi del 1871, a seguito della riconfigurazione urbanistica voluta da Napoleone III e realizzata da Haussmann, quando i cittadini espropriati si sollevarono per imporre il governo rivoluzionario sulla capitale. O come nel 1968, con i grandi movimenti sociali urbani che agitarono Chicago e Berlino, Praga e Città del Messico, o ancora, nell’estate 2011, con i riots che hanno bruciato le periferie di Londra e con l’ondata di indignazione contro il potere finanziario che ha scosso America ed Europa.
Città ribelli, unendo rigore scientifico e passione politica, ripercorre la storia delle città come centri propulsori della lotta di classe e dei movimenti di riappropriazione dei diritti collettivi. Partendo dal saggio cruciale di Henri Lefebvre Il diritto alla città, David Harvey esplora gli effetti delle politiche neoliberiste sulla vita urbana negli ultimi trent’anni; le modalità con cui la schiavitù del debito immobiliare ha paralizzato il ceto medio, le classi povere e le minoranze; il progressivo restringimento dello spazio pubblico per la cittadinanza a vantaggio delle cattedrali del business. Per approdare, infine, al quesito fondamentale: in che modo, in tempi di crisi, possiamo riorganizzare le città perché siano socialmente ed ecologicamente più giuste?

CITTA' RIBELLI
I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street

di David Harvey
Edizioni il Saggiatore

David Harvey è un geografo, sociologo e politologo britannico. Si occupa di geografia, economia politica e geopolitica ed è attualmente professore di antropologia al Graduate Center of the City University of New York. Precedentemente è stato professore di Geografia presso le università di Oxford e Johns Hopkins. Nel 1995 gli è stata conferita la Patron’s Medal della Royal Geographical Society e nel 2007 è stato eletto membro della American Academy of Arts and Sciences. Tra i suoi libri tradotti in italiano: La crisi della modernità (il Saggiatore, 2002), La guerra perpetua (il Saggiatore, 2006), Breve storia del neoliberalismo (il Saggiatore, 2007), Neoliberismo e potere di classe (Allemandi, 2008), Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2012), Città ribelli (il Saggiatore, 2013), Giustizia sociale e città (Feltrinelli, 1978), L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (Feltrinelli 2011) e Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, 2014).

Link: David Harvey (da Wikipedia)

sabato 21 febbraio 2015

Jobs Act, il rischio di una Fornero-bis

Punta sul contratto a tutele crescenti, ma questa volta ci sono gli incentivi. Che però finiranno

Lidia Baratta

Matteo Renzi (Getty Images/Afp/Andreas Solaro)

Si chiama Jobs Act, con la “s”, al plurale. Ma la riforma del lavoro del governo Renzi alla fine punta su un solo contratto. Quello a tempo indeterminato a tutele crescenti. Approvato il decreto, si potrà assumere con la nuova formula dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Presumibilmente dal 2 marzo (visto il 1 marzo è domenica). Cocopro, cococo, associazione in partecipazione e job sharing verranno invece «rottamati». Il rischio che si tratti di una Fornero bis c’è, ma questa volta a convincere le aziende ad assumere ci sono anche i tagli ai contributi e una timida ripresa dell’economia.

«In Italia da molti anni è diventato normale assumere con tutte le tipologie contrattuali tranne che con il tempo indeterminato», ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti in conferenza stampa. «Rovesciare questa modalità di pensiero è la nostra scommessa. Tutti quelli che devono assumere devono partire dall’idea di farlo con il tempo indeterminato». Un scommessa di non facile realizzazione, visto che oggi solo il 15% dei nuovi assunti è a tempo indeterminato e ben il 70% a termine.

Secondo il primo dei decreti approvati in via definitiva (qui il testo), la regola è che, in caso di licenziamento illegittimo, ci sarà un indennizzo monetario crescente in base all’anzianità di servizio da un minimo di quattro a un massimo di 24 mensilità. Il reintegro nel posto di lavoro rimane solo per i licenziamenti discriminatori e in una fattispecie limitata dei licenziamenti disciplinari, cioè solo quando il fatto materiale contestato è insussistente. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dove la reintegra era la norma, non esiste più. La formula è valida anche per i licenziamenti collettivi, nonostante i pareri negativi delle Commissioni lavoro di Camera e Senato, e si applica pure a sindacati e partiti politici.

La maggiore flessibilità in uscita, insieme soprattutto agli incentivi previsti dalla legge di stabilità 2015 sui contributi nei primi tre anni di lavoro per i neoassunti (per un massimo di 8.060 euro all’anno), dovrebbe convincere gli imprenditori ad assumere a tempo indeterminato. «Parole come mutuo, ferie, buonuscita e diritti entrano nel vocabolario di una generazione che finora è stata esclusa», ha annunciato Renzi. E in effetti già dal 1 gennaio 2015, senza che fosse ancora valido il contratto a tutele crescenti, molti imprenditori hanno già approfittato dello sconto, e le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate. Anche se non si sa bene quanti fossero consapevoli di assumere con il vecchio articolo 18.

Davanti alla maggiore facilità di licenziamento, il modello di riferimento è quella della flexsecurity nordeuropea, cioè la sicurezza della tutela al di fuori del posto di lavoro. Per intenderci: in Danimarca un terzo dei lavoratori cambia occupazione una volta all’anno, grazie a una rete di tutele pubbliche e private. Ma al momento, da noi, le tutele sembrano poche. I nuovi ammortizzatori sociali (Naspi, Asdi, Dis-col) del secondo decreto approvato in via definitiva (qui il testo) non sono ancora interamente finanziati, come ha ammesso lo stesso governo. L’Agenzia unica per l’impiego, che dovrebbe riordinare i malfunzionanti centri per l’impiego, ancora è solo una promessa ed è legata alla riforma costituzionale del Titolo V. E il contratto di ricollocazione firmato da Ichino, con poco più di 80 milioni di euro a disposizione, servirà a fornire voucher a non più di 18mila disoccupati.

Sergio Marchionne a gennaio ha annunciato che con il Jobs Act assumerà a tempo indeterminato 1.500 persone nello stabilimento Fca di Melfi. «Ma li avremmo assunti comunque, con la formula dei contratti interinali, anche se non ci fosse stata la nuova legge», ha detto l’amministratore delegato. E in effetti bisognerà capire quanta sarà l’occupazione aggiuntiva, cioè assunzioni che non ci sarebbero state senza il Jobs Act e quante saranno invece le assunzioni da parte di aziende che lo avrebbero fatto comunque. Anche perché agli incentivi potranno attingere anche i datori di lavoro che vorranno convertire collaborazioni e contratti a tempo determinato dei dipendenti in tempo indeterminato. Lo ha detto lo stesso Renzi nella conferenza stampa di presentazione dei decreti: «Duecentomila italiani passeranno dai cocopro al lavoro a tempo indeterminato». E i primi dati sulla crescita del 23% del tempo indeterminato nella provincia di Milano lo confermano: il numero di lavoratori non cambia, cambia solo il contratto. Contratto che potrebbe non servire a diminuire la disoccupazione giovanile, visto che a parità di condizioni con le tutele crescenti un datore di lavoro potrà assumere un lavoratore esperto e più produttivo di un giovane alle prime armi.

«L’ipotesi», spiega Luca Failla, avvocato fondatore dello studio LabLaw ed esperto di diritto del lavoro, «è che ci sarà un travaso, ma non un incremento occupazionale. L’incremento ci sarà soprattutto nelle assunzioni a tempo indeterminato». Ma a tutele crescenti. Ed è qui che potrebbe venirsi a creare un altro dualismo, tra quelli che hanno l’articolo 18, perché assunti negli anni scorsi, e quelli che non ce l’hanno più. «Nella stessa azienda si troveranno due insiemi di lavoratori diversi, “ante Jobs Act” e “post Jobs Act”. E di questo probabilmente dovrà occuparsi la Corte Costituzionale».

Ma «puntare sul tempo indeterminato non significa per forza essere antichi», aggiunge Failla. «Anche perché è con il tempo indeterminato che si hanno investimenti nella formazione e nella crescita delle professionalità che con gli altri contratti non si fanno». E con lo spauracchio del tutele crescenti potrebbe anche esserci un aumento della produttività. Il problema «è che bisogna cambiare dall’interno il rapporto del contratto a tempo indeterminato, superando il concetto della verticalità dell’azienda in cui c’è chi comanda e chi obbedisce, inserendo il rendimento e gli obiettivi, con un contratto più adeguato a una realtà fatta di servizi e non solo di fabbriche».

Il passato invece dovrebbe essere del tutto archiviato per i contratti che durante questi anni sono stati anche sinonimo di abusi e precarietà: collaborazioni a progetto, associazioni in partecipazione e job sharing (il lavoro ripartito), che però riguarda poco meno di 300 persone. Dall’entrata in vigore del terzo decreto, per il momento ancora in prima lettura (qui il testo), non potranno più essere stipulati. E dall’1 gennaio 2016 alle «finte» collaborazioni si potranno applicare le norme del lavoro subordinato dopo il passaggio davanti a un giudice. «Costruire una riforma sulla centralità del contratto a tempo indeterminato significa non cogliere la molteplicità dei mestieri e delle professioni che si stanno sviluppando», ha commentato Emmanuele Massagli, presidente del think tank Adapt. «La cancellazione totale dei contratti di collaborazione a progetto non sembra la soluzione corretta, soprattutto in questa fase in cui è necessario un mercato del lavoro dinamico», spiega anche l’avvocato del lavoro Fabrizio Daverio. «I contratti a progetto rappresentano nel nostro Paese una quota rilevante in termini occupazionali, e le 200mila “assunzioni a tempo indeterminato” di cocopro che il governo ipotizza appaiono difficili. La loro eliminazione porterebbe molti a utilizzare le famigerate “false partite Iva”». E «si annunciano contenziosi sulle trasformazioni, perché saranno necessarie delle conciliazioni individuali, che potrebbero diventare onerose».

Nel 2012 già la riforma Fornero, in effetti, aveva puntato sul contratto a tempo indeterminato aumentando il costo di quelli a termine. Ma i contratti a tempo indeterminato non sono mai decollati e i contratti a termine sono aumentati. «Il peccato originale della riforma Fornero», spiega Failla, «è stato quello di costringere le aziende ad assumere a tempo indeterminato con il timore della sanzione. Con il Jobs Act, invece, si vuole provare a convincere le imprese ad assumere tramite gli incentivi economici e con una disciplina dei licenziamenti più flessibile. Se le cose non vanno bene, si può licenziare». Alcuni prevedono però che nel giro di sei mesi, finiti i soldi stanziati per i neoassunti, 1 miliardo per il 2015, finirà anche l’effetto Jobs Act. Ma sarebbe un’occasione sprecata.

Basteranno le tutele crescenti a «rottamare il diritto del lavoro», come ha detto Renzi? Secondo Failla, «questo è solo un primo tassello necessario ma non ancora sufficiente. Non è solo la modifica dell’articolo 18 che modifica il puzzle del mercato del lavoro. Bisogna attrezzare il diritto del lavoro al nuovo mondo. Serve un Testo unico semplificato. La direzione è quella ma non dobbiamo fermarci qui».

Fonte: Linkiesta.it

venerdì 20 febbraio 2015

I tifosi del Feyenoord devastano Roma, di chi è la colpa?

Prefetto e Questore di Roma, ed anche il ministro dell'Interno, sono finiti nella bufera dopo gli incidenti provocati ieri nella Capitale dai tifosi olandesi, giunti in città per assistere all'incontro di Europa League all'Olimpico contro i giallorossi: non hanno controllato adeguatamente un flusso di supporters già ampiamente conosciuti per i loro comportamenti violenti


Prefetto e Questore di Roma, ma anche il ministro dell’Interno sono finiti nella bufera dopo gli incidenti provocati ieri nella Capitale dai tifosi olandesi del Feyenoord, giunti in città per assistere all’incontro di Europa League all’Olimpico contro i giallorossi di Garcia. È alla Prefettura, alla Questura e al Viminale, infatti, che vengono attribuite le responsabilità per non aver controllato adeguatamente un flusso di supporters già ampiamente conosciuti per i loro comportamenti violenti e che, peraltro, avevano già avevano manifestato nei giorni scorsi l’intenzione di sfilare per le strade romane prima di raggiungere lo stadio.


(Foto: Reuters / Yara Nardi)

TIFOSI DEL FEYENOORD DEVASTANO ROMA, ALLARME NEI GIORNI PRECEDENTI SUL WEB - Come facilmente verificabile in rete, alla vigilia del match tra Roma e Feyenoord (incontro di andata dei sedicesimi di Europa League, disputato alle 19 all’Olimpico) erano attesi nella capitale 5mila tifosi olandesi ed era già noto il rischio di scontri o, quantomeno, di disordini. In particolare, su Internet diversi siti già segnalavano la reputazione dei sostenitori della squadra di Rotterdam non proprio rassicurante. In rete si annunciava che i supporter olandesi sarebbero arrivati sul piede di guerra, intenzionati a radunarsi nel centro della città per poi proseguire a piedi, tutti insieme, verso l’Olimpico, con alto rischio di contatto tra le tifoserie che sarebbe stato accentuato dal traffico pomeridiano.


(Foto: Reuters / Yara Nardi)

TIFOSI DEL FEYENOORD DEVASTANO ROMA, MARINO: «PER PREFETTO E QUESTORE ERA TUTTO A POSTO» - Il principale accusatore è sicuramente il sindaco di Roma Ignazio Marino. «Per Prefetto e Questore era tutto a posto», ha detto il primo cittadino accusando i responsabili dell’ordine pubblico di aver sottovalutato i rischi. «Ho protestato e chiesto spiegazioni a chi ha la responsabilità dell’ordine pubblico in questa città, consentendo che monumenti preziosi e recentemente restaurati come la Barcaccia, diventassero bersaglio di gesti violenti», ha dichiarato Marino. E poi: «La gestione della sicurezza ha falle grandi e intollerabili, ieri ci sono stati altri episodi di violenza, stamani prefettura e questura hanno assicurato che era tutto sotto controllo, abbiamo visto cosa è successo».

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TIFOSI DEL FEYENOORD DEVASTANO ROMA, M5S E LEGA CHIEDONO LE DIMISSIONI DI ALFANO - Ovviamente ai fatti di Roma chiamano in causa anche i partiti in Parlamento. Lega Nord e Movimento 5 Stelle chiedono in queste ore le dimissioni del ministro dell’Interno Angelino Alfano. I pentastellati sapere: «Con Roma ridotta a ferro e fuoco la domanda che ci poniamo è la stessa degli ultimi due anni: dov’è il ministro dell’Interno? Gli scontri erano già stati ampiamente annunciati e non è bastata la megarissa e i danni provocati ieri sera a Campo de’ fiori a svegliare il ministro. Forse sta ancora cercando Dell’utri in Libano». Il segretario del Carroccio Matteo Salvini su Facebook ha invece scritto: «Tifosi olandesi devastano Roma. Il prefetto di Roma dovrebbe dimettersi, il suo capo Alfano dovrebbe dimettersi e chiedere scusa». Il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli ha invece dichiarato: «Se poche decine di tifosi olandesi ubriachi riescono a mettere in scacco l’ordine pubblico e devastare, ieri, Campo dei Fiori e, oggi, Piazza di Spagna e il centro della Capitale, chi è preposto alla tutela dell’ordine pubblico e chi dovrebbe guidare la città devono andarsene a casa subito».

TIFOSI DEL FEYENOORD DEVASTANO ROMA, PREFETTO CONTRO NEGOZIANTI - Una prima difesa del Prefetto di Roma chiama in causa i negozianti e gli abusivi che nel centro città hanno venduto alcolici senza rispettare il divieto. L’ordinanza del Prefetto, infatti, vietava la vendita di bevande alcoliche fino alle 24 di ieri. Il provvedimento non ha però sortito alcun effetto. Alcuni supermarket in centro sono stati letteralmente presi d’assalto dai tifosi del Feyenoord che hanno acquistato centinaia di bottiglie di birra. Intanto Alfano non ha risposto o rilasciato comunicati stampa. All’ambasciata olandese non hanno potuto far altro che dirsi dispiaciuto per i disordini ed i danni provocati dalla follia dei tifosi.

TIFOSI DEL FEYENOORD DEVASTANO ROMA, CRONACA - Le tensioni nel cuore di Roma erano cominciate martedì sera, quando la città era presidiata da circa 1300 agenti. Intorno alle 22 decine di tifosi del Feyenoord hanno iniziato a lanciare bottiglie ed altri oggetti contro le forze dell’ordine presenti in piazza Campo de’ Fiori. Sono state 33 le persone fermate, tutte olandesi, tutti sostenitori del Feyenoord. Sono state poi 16 quelle arrestate dalla Polizia, e sette dai Carabinieri. Ieri invece una vera e propria battaglia si è scatenata in Piazza di Spagna, dopo tre ore di tensione, poco prima delle 16.30. I supporter del Feyenoord hanno cominciato a lanciare fumogeni contro gli agenti della Polizia, i quali, schierati sulla scalinata di Trinità dei Monti, hanno reagito con una carica fin dentro la salita di San Sebastianello, verso il Pincio. I tifosi hanno dunque reagito alla carica lanciando bottiglie e oggetti contro gli uomini delle forze dell’ordine. In seguito hanno iniziati a devastare auto, motorini, cestini della spazzatura. Piazza di Spagna è stata sotto assedio per ore. E i tifosi del Feyenoord hanno anche danneggiato uno dei monumenti più famosi della capitale, la Barcaccia, la fontana del bernini appena restaurata con fondi privati. Un frammento della fontana è stato divelto. Molti negozi sono stati costretti ad abbassare le serrande. I supporter olandesi hanno, infine, anche danneggiato 15 dei 26 autobus messi a disposizione su indicazione della Questura, per il trasporto dei tifosi del Feyenoord dal punto di raccolta di villa Borghese allo stadio. Il bilancio finale degli scontri è di 28 arrestati tra la tifoseria del Feyenoord, di 5 tifosi contusi, 13 uomini delle forze dell’ordine feriti, 3 dei quali investiti dallo scoppio di petardi. I danneggiamenti riguardano anche auto in sosta e mezzi delle forze di polizia.

(Foto di copertina: Reuters / Yara Nardi. Fonte: archivio LaPresse)

Fonte: Giornalettismo

mercoledì 18 febbraio 2015

Di Battista, le bufale e quella comunicazione politica avvelenata


di Carol Verde

Ottobre 2014. Provarci, sempre: deve averla pensata così Alessandro Di Battista quando, alla manifestazione “Italia5Stelle” al Circo Massimo, ha dedicato il suo intervento alla politica estera. “Nigeria, vai su Wikipedia: 60% del territorio è in mano ai fondamentalisti islamici di Boko Haram” aveva detto, “la restante parte Ebola”. Numeri netti e affermazioni pesanti, che non vengono certo verificate sul momento con lo smartphone, e, nella folla, provocano anche un grande “ooohhh” di stupore. Peccato che, nella smania di factchecking - la stessa che i 5 Stelle hanno pesantemente contribuito a diffondere - le dichiarazioni in questione vengono passate al vaglio del sito Pagella Politica e bollate come “panzana pazzesca”. E non solo i numeri relativi al controllo del gruppo terrorista si riducono drasticamente (Boko Haram controllerebbe direttamente appena 25 insediamenti urbani), ma anche i casi di Ebola totali scendono a 20, di cui 8 decessi - tanto che, qualche giorno dopo l’intervento, l’OMS dichiarerà la Nigeria “Ebola-free”. Tra l’altro, manco a dirlo: la pagina di Wikipedia della Nigeria neanche lo citava, Boko Haram. Ed ecco che, con 679 voti e bacio accademico, Di Battista scala la classifica e si aggiudica senza troppa fatica il premio di Panzana 2014 sul sovracitato sito di factchecking.

Ma la Rete - libera e sovrana, sempre - non perdona, e le gesta del deputato grillino valicano i confini internazionali, arrivando fino alla stampa di serie A: a distanza di quattro mesi il New York Times ha regalato, infatti, la prima posizione in un articolo, che titola Lies heard round the world, proprio alle affermazioni sulla Nigeria. Affermazioni reputate ridicole dai giornalisti americani, ancor di più se accostate al ruolo non proprio marginale del Nostro (“vice president of the Committee on Foreign Relations in Italy’s Chamber of Deputies”, ricordano, “and rising star in the Five Star Movement party”).

Such lies are fun to read, scrivono Bill Adair e Maxime Fischer-Zernin nel loro pezzo, e non gli si può dar torto. Che il primato mondiale per la bugia più grossa lo vinca proprio chi si fregia del titolo di smascheratore di bugie e “scassinatore” professionista di scatolette di tonno, certo, è cosa buffa. Roba che se la questione non fosse seria, bisognerebbe chiamare Staffelli per consegnargli un tapiro (e non è detto che non succeda). E poi diciamocelo: il fatto che sia successo a Di Battista ci fa gongolare un po’ tutti. Perché dopo le analisi di geopolitica spicciola sull’Isis, in fondo una “sanzione” se la meritava - e se proprio non una sanzione, una figuraccia planetaria può andar bene lo stesso. Siamo d’accordo, non è l’unico a raccontar panzane: proprio sul sito di Pagella Politica è possibile controllare gli scores di diversi altri politici italiani, e nel suo caso la percentuale, rispetto alla valutazione della veridicità complessiva delle dichiarazioni verificate, è del 77%, in cui è abbondantemente superato dal 66% di Matteo Salvini, dal 61% di Beppe Grillo e, soprattutto, dal 58% di Silvio Berlusconi.

Ma che i politici di professione usino informazione manipolata per guadagnarsi un posto nel cuore dell’elettore è storia antica e fa, nostro malgrado, anche un po’ parte del gioco. Il problema compare quando un partito che si ostina a non definirsi tale, con i suoi politici che di professione non sono (anzi!, dicono loro), che si propone come alternativa totale rispetto a quanto ci fosse prima, a ben vedere non fa che comportarsi come tutti gli altri - attingendo, anzi, al peggio della tradizione comunicativa e populistica. Di Battista non è che un caso tra i tanti: come dimenticare la foto del civile, ucciso dai terroristi Rhodesiani, spacciata come morte da Ebola sui social network? Per non parlare delle teorie sulla “Gran balla dell’HIV”, divulgate dal responsabile della Comunicazione al Senato, Claudio Messora. E ancora: tutti i dati, le analisi, i video e le contraddizioni sull’uscita dall’euro, nonostante sia stato detto in tante e diverse occasioni che uscire oggi dalla moneta unica non sia la cosa migliore - al punto che persino Alberto Bagnai, noto economista antieuro, poco tempo fa ha dichiarato che è stato per lui un enorme problema essere circondato da “cialtroni” nella sua azione di divulgazione.

La lista sarebbe lunga, e non ci soffermiamo. Ma resta un interrogativo: questo tipo di comunicazione, che non si cura troppo della propria diffusa superficialità, che conta sulla quantità e meno sulla quantità (tanto poi, sui grandi numeri, gli scivoloni si diluiscono, si perdono, si dimenticano), che si fa stendardo di onestà politica scoprendosi carente di accuratezza , può far crescere le coscienze alla quale si rivolge? Il timore è che, nella cieca fiducia riposta nell’Idea e nei suoi rappresentanti, si crei e cresca una generazione politica che non riesca a riconoscere la realtà fattuale da quella demistificata che gli è stata spacciata troppe volte per buona.

Fonte: Diritto di critica

martedì 17 febbraio 2015

Ibrahimovic contro la fame nel mondo

Ha coperto il suo corpo con cinquanta tatuaggi di nomi di vittime della fame nel mondo

di Sabika Shah Povia


"Il mio nome è Zlatan Ibrahimović. Ovunque vada, le persone mi riconoscono, urlano il mio nome, mi tifano. Ma ci sono nomi per cui nessuno tifa... Se potessi, tatuerei ciascun nome sul mio corpo, ma ci sono 805 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo oggi... Ora ogni volta che sentirete il mio nome, penserete al loro nome. Ogni volta che mi vedrete, vedrete loro."

L'attaccante del Paris Saint­ Germain, il cui stipendio ammonta a 35 milioni di euro l'anno, in campo contro il Caen sabato 14 febbraio, si è tolto la maglietta per festeggiare il suo goal a soli due minuti dal fischio d'inizio. Il petto di Ibrahimović era ricoperto di nomi: cinquanta nuovi tatuaggi temporanei con i nomi di persone vittime della fame nel mondo.



Guerre, disastri ambientali, estrema povertà. Sono tante le cause della fame nel mondo oggi. La campagna 805 milioni di nomi è un'iniziativa del Programma Alimentare Mondiale (WFP) delle Nazioni Unite, la più grande agenzia umanitaria impegnata nella lotta contro la fame nel mondo. Ogni anno il WFP aiuta più di 80 milioni di persone in 75 Paesi.

Le persone che soffrono di fame nel mondo spesso non finiscono in prima pagina, nonostante la fame e la malnutrizione siano al primo posto dei rischi alla salute in tutto il mondo - più dell'Aids, la malaria e la tubercolosi messi insieme. Il simbolico gesto di Ibrahimović gli è costato un cartellino giallo, ma questo, a suo avviso, è stato un piccolo prezzo da pagare rispetto alla causa della quale ha deciso di farsi portavoce.

Fonte: The Post Internazionale

Pace, diritti, prosperità. Europa dove sei?


Assente su tutte le grandi sfide di questo primo scorcio di XXI secolo, pericolosa e deleteria quando ha provato di volta in volta ad intervenire per giocarvi un ruolo. Per comprendere la portata del fallimento del progetto europeo si può mutuare un’espressione usata in questi giorni da Romano Prodi, «da Tripoli a Kiev questa Europa è assente su tutto». A parlare, se non bastano le osservazioni di uno come Prodi che nel bene e nel male alla costruzione dell’impianto europeo vi ha partecipato attivamente, sono i fatti e questi non lasciano margini di dubbio.

A cominciare dalla crisi economica. Il caso Grecia e il tracollo finanziario vissuto dal paese ellenico negli ultimi anni rappresenta un mix di incompetenza e reiterata malafede di politici, economisti ed amministratori greci ed europei. Che il passaggio ad una moneta unica potesse indebolire gli apparati produttivi dei paesi meno competitivi lo avrebbero potuto prevedere anche analisti alle prime armi; tanto nei rapporti commerciali con i partner europei quanto in quelli con i paesi esteri. Un conto è infatti vendere i propri prodotti con la dracma, un altro è commerciare in euro; ai tedeschi che prima ritenevano conveniente acquistare l’olio in Grecia è diventato vantaggioso rivolgersi al migliore olio italiano, a chi è fuori dall’unione monetaria è diventato in generale più costoso importare prodotti europei a causa dell’euro forte. A guadagnarci sono state le nazioni che potevano vantare cicli produttivi più efficienti, Germania in testa, che ha guadagnato quote sul mercato interno alla UE senza troppo patire sul piano internazionale: non una colpa essere i più bravi, per carità, ma se è un’integrazione economica e politica quella che si vuole perseguire, i vantaggi dovrebbero essere di tutti e non solo per alcuni. E poi l’incapacità di affrontare autonomamente una crisi finanziaria conclamata. L’intervento del FMI nella crisi greca è un po’ la certificazione della debolezza degli strumenti europei contro le crisi; è come se per scongiurare il default della California Obama avesse chiesto aiuto alla Lagarde. Più conosciuto per i suoi insuccessi che per la buona riuscita di qualche suo intervento di aiuto, il FMI, con la complicità delle istituzioni europee, non si è smentito, e nell’obsolescenza di ricette ultraliberiste imposte alla Grecia come condizione per l’erogazione di aiuti ha finito per impoverire il popolo greco. Mortalità infantile, denutrizione, disoccupazione sono l’eco del fallimento europeo nelle politiche economiche degli ultimi anni.

Una situazione, quella greca, che potrebbe presto coinvolgere anche altri paesi europei, da sette anni chi più chi meno in continua recessione. Il nuovo mondo modellato dalle potenze emergenti impone infatti l’adeguamento delle debolezze strutturali europee e di politiche strategiche comuni di lungo periodo. A cominciare, vista l’impossibilità di competere su molti mercati con i cinesi, dal rilancio della domanda interna con politiche redistributive e di aumento dei salari. Gli Stati Uniti, che hanno costruito la propria ripresa sul mercato interno, dovrebbero insegnare. Ma anche su questi punti si denota l’inesistenza di un vero dibattito in Europa.

Dalle ristrettezze economiche alle instabilità geopolitiche. Sì perché bastano pochi anni di crisi per riscoprirsi in un mondo terribilmente conflittuale dove attentati terroristici ed eccidi di massa sono all’ordine del giorno; dove i popoli affamati riscoprono il fascino degli autoritarismi, magari conditi dal delirio islamista dell’ISIS, o dal sentimento antirusso e un po’ revisionista dei paesi dell’Est Europa. E’ così che il problema da economico diventa politico e va ad intaccare l’ambito più strettamente attinente attinente alla sovranità nazionale, quello della sicurezza e del ruolo geopolitico e militare di ciascun paese. Anche sul punto l’Europa ha dimostrato e continua a dimostrare l’inadeguatezza della propria governance rispetto alle sfide dei prossimi anni. Le prime crepe le si erano viste negli interventi unilaterali di Sarkozy in Libia, ma è con la crisi ucraina che è venuta fuori l’ambiguità della posizione europea sulle strategie geopolitiche e l’incapacità della UE di perseguire politiche autonome rispetto ai diktat degli USA. Lungi dal volersi ergere a paladini del diritto all’autodeterminazione dei popoli, è noto come russi e americani si stiano giocando in Ucraina la propria partnership con l’Europa: il rilancio dell’economia russa è poggiato nei primi anni 2000 su forti relazioni con i paesi europei, un qualcosa che non è mai andato giù agli americani, desiderosi di diventare il primo esportatore mondiale di petrolio entro il 2020. Scatenare tensioni geopolitiche in giro per il Vecchio Continente e per il Mediterraneo per impedire all’Europa di stringere relazioni in piena indipendenza con i propri partner orientali, questo è l’obiettivo conclamato degli americani; e lo strumento per il conseguimento di questo obiettivo si chiama NATO. Anche su questo in Europa manca una lettura autonoma della crisi ucraina, e manca una seria discussione sul ruolo del Patto Atlantico oggi, in un mondo molto diverso da quello dei due blocchi contrapposti, in un mondo multilaterale dove l’integrazione economica tra diverse aree del pianeta può comportare benefici ma anche riprodurre vecchie tensioni. In un mondo come questo, la NATO non solo un deleterio vincolo per l’Europa che le impedisce di avere normali relazioni con i partner asiatici, ma rappresenta non più uno strumento di difesa, bensì uno strumento di guerra.

Per non parlare poi del ruolo nullo dell’UE in Medio Oriente e Maghreb. Dalla questione israelo-palestinese alle primavere arabe, passando per i numerosi conflitti americani nel Golfo e per l’annosa problematica dei fenomeni migratori lungo il Mediterraneo. Mai una risposta politica forte sui problemi che affamano la vicina Africa, mai una presa di posizione comune, trasparente e realistica sulla necessità di promuovere lo sviluppo nei paesi del medioriente come antidoto contro il radicarsi del fondamentalismo islamico. Anche oggi, dinanzi alle minacce dell’ISIS, la reazione europea appare debole e priva di solide basi comuni: affrontare militarmente i tagliagole che insanguinano l’altro capo del Mediterraneo? Nessuna risposta, eppure con i vari Gheddafi e Saddam Hussein ci si mosse per molto meno.

Fonte: OltremediaNews

lunedì 16 febbraio 2015

La vendetta di Gheddafi


Gerhard Mumelter
Sono bastati pochi fatti drammatici in Libia per far balenare in Italia addirittura i lampi di un possibile intervento militare nel paese nordafricano. Le immagini dell’evacuazione degli italiani rievocano quelle di 45 anni fa, quando furono cacciati da Muammar Gheddafi. Quelle atroci della barbara uccisione di 21 poveri operai copti ricorda che il pericolo jihadista è arrivato sulle coste del Mediterraneo, a un’ora di volo dall’Italia: “Siamo a sud di Roma”.

Le incaute dichiarazioni dei ministri Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti sull’Italia “pronta a intervenire” e sul “possibile invio di cinquemila uomini” hanno alzato ulteriormente il livello di allarme. Infine, l’inconsueta ondata di migranti in pieno inverno e la tragedia che ha provocato più di trecento vittime hanno riproposto la necessità di un intervento dell’Europa, che guarda al conflitto in Ucraina trascurando per l’ennesima volta le coste del Mediterraneo. Da mesi l’Italia cerca di convincere la comunità internazionale dell’urgenza di un intervento in Libia, paese lacerato con due parlamenti e due governi e in mano a milizie in guerra tra loro.

È la pesante eredità della guerra aerea del 2011 per rovesciare Gheddafi, servita innanzitutto al presidente francese di allora, Nicolas Sarkozy, per motivi elettorali. Eliminato il dittatore, l’alleanza si è scordata il compito più difficile: quello di sostenere il difficile passaggio alla democrazia, di creare un esercito regolare e un corpo di polizia, di disarmare le milizie e di mediare fra le tribù divise da antichi rancori etnici.

Ora la Libia è in preda al caos e serve un intervento urgente. Ma di che tipo? Renzi ha chiarito che non può essere militare. Si tratta di dare piú vigore alla mediazione dell’inviato dell’Onu Bernardino Leon, diplomatico spagnolo nominato per aggirare le rivalità tra Italia e Francia. Roma non ha mai nascosto che in quel posto avrebbe preferito Romano Prodi, chiesto come mediatore anche da parecchi politici libici.

Finora i negoziati tra le parti a Ginevra hanno avuto scarsi effetti, anche per l’assenza di alcuni interlocutori. Con la conquista di Sirte da parte dei jihadisti, le minacce all’Italia, la presenza di circa duecentomila migranti sulla costa libica e il pericolo di attentati contro i giacimenti di gas e petrolio, in Libia potrebbe crearsi in breve tempo una situazione altamente esplosiva.

Per molti europei il paese nordafricano è lontano come la Siria. Ma potrebbero ben presto accorgersi del contrario. In fondo gli avvenimenti in Libia non sono altro che la conseguenza delle inutili e costosissime guerre combattute dall’occidente in Iraq e in Afghanistan, la cui lunga ombra torna a stendersi minacciosa sull’Europa.

Fonte: Internazionale

domenica 15 febbraio 2015

La lezione della Germania, che l’Italia non capisce

La Germania cresce più di tutti in Europa perché conosce il suo ruolo nell’economia globale. Noi? 

Wolfsburg (Germania). Un braccio meccanico posiziona due auto, nei giganteschi silos della fabbrica di VolksWagen (Credits: Sean Gallup/Getty Images)

«L'essenziale è invisibile agli occhi», diceva la volpe al Piccolo Principe. Sarà, forse la volpe ha ragione. Ma a volte siano noi a perderci nei dettagli, perdendo di vista il cuore del problema. La questione greca, ad esempio: da settimane, mesi ormai, ci stiamo arrovellando su cosa sia meglio per noi e per loro. Che restino nell'Euro o che escano. Che siano annaffiati di soldi o strozzati dai loro creditori. Che realizzino riforme liberali o di sinistra. Dibattito interessante, intendiamoci, e pure di una certa importanza per il destino dell'Unione e di altri paesi del continente, Italia in primis.

Il problema della Grecia, con la P maiuscola, tuttavia è altrove. Dentro o fuori, nutrita o affamata, che ruolo ha nell'economia mondiale, o anche solo in quella continentale, o anche solo in quella mediterranea? Vuole puntare sul turismo come i paesi balcanici del sud? Attrarre investimenti industriali approfittando del basso costo della manodopera, come i paesi dell'Est europa? Diventare un hub per il trasporto navale? Un paradiso fiscale? In ultima analisi: cosa vuole fare la Grecia coi soldi che chiede?

Non è una domanda banale. Pur condividendo dalla prima all'ultima le legittime istanze di una popolazione in enorme difficoltà, non possiamo non porcela: il rischio, nemmeno troppo peregrino, è concedere alla Grecia quel che vuole per poi ritrovarci tra qualche anno, nella medesima situazione.

Questo è un giornale che non è mai stato tenero con l'intransigenza tedesca. Non per preconcetta antipatia, o per nazionalismo d'accatto, ma perché riteniamo che far digiunare un malato difficilmente lo farà guarire. Tuttavia, la differenza tra un paese-cicala e un paese-formica, sta proprio qui. Che la cicala passa il suo tempo (e spreca i suoi soldi) vivacchiando, perché non sa cosa fare, o lo sa ma non ha voglia di investire il proprio tempo (e i propri soldi) per farlo. La formica, invece, ha una strategia - far fronte all'inverno - e usa tutto il suo tempo e tutti i suoi soldi per perseguirla.

Lo diciamo oggi, di fronte ai dati che raccontano la ripresa tedesca: +0,7%, nel quarto trimestre dello scorso anno, contro una previsione che diceva +0,3%. Nessun paese europeo ha fatto meglio. Nè la Francia (+0.1%), né l'Italia (crescita zero virgola zero), né tantomeno la Grecia, il cui Pil è calato ancora. Se ciò avviene - e secondo la teoria economica dovrebbe accadere esattamente l'opposto - non è per via del fiscal compact o della regola del 3%. Avviene perché la Germania sa dove sta andando la propria economica. Ne ha colto potenzialità e punti di debolezza. E vi ha disegnato attorno un sistema di incentivi, di regole, di previdenza e assistenza sociale, ad essa funzionali.

Non ci ha messo un giorno, né un mese, con buona pace di chi pensa, come Renzi, che sia tutto un problema di ritmo. La propria strategia, la Germania, l'ha costruita negli ultimi vent'anni, dopo l'unificazione E la sta portando avanti, inesorabile, giorno dopo giorno. Tra i tanti vantaggi negoziali che i tedeschi hanno nelle trattative, questo è il principale: che sanno dove stanno andando, cosa vogliono ottenere, a cosa possono rinunciare. Chi, come noi, vive alla giornata, un giorno con un occhio ai sondaggi, quello dopo con un occhio ai conti, parte perdente.

Land of ideas, si sono autonominati e così si promuovono nel mondo. La terra delle idee. Non è un nome scelto a caso. Puntano su un mix di manifattura e ricerca. Siccome hanno una delle tre popolazioni più vecchie del mondo - insieme a Giappone e Italia - investono tantissimo sull'istruzione dei loro giovani e fanno ponti d'oro ai migliori talenti stranieri. Hanno scelto alcuni settori strategici in cui espandersi - l'automotive ad esempio - difendendoli e promuovendoli con le unghie e coi denti. Con Industria 4.0 si sono inventati i processi produttivi di domani, fondati sulla massima automazione possibile. Hanno adeguato la loro legislazione del lavoro, fatta di tutele crescenti e di mini-jobs, a questo tipo di struttura produttiva. E rimodulato il sistema previdenziale per far fronte al calo demografico. Lo scorso anno, hanno brindato al loro primo bilancio in pareggio.

Lasciando perdere per un attimo la Grecia: noi, invece? Provate a citare una singola legge - non arrivo nemmeno a definirla strategia globale - fatta per far crescere o per tutelare quel made in Italy di cui ci riempiamo la bocca ogni volta che inspiriamo. O una visione per la promozione all'estero della nostra tanto decantata eccellenza agroalimentare. O un documento che dica quali materie prime dobbiamo produrre e quali importare. O qualcosa di minimamente strutturale nell'ambito delle energie rinnovabili. Per non parlare di cultura o turismo. Se quest'anno andrà bene, sarà soprattutto perché alla Germania, nostro primo partner commerciale, andrà meglio. Con buona pace di chi esultava per le difficoltà tedesche nei trimestri precedenti.

Stampiamocelo bene in testa, quindi, a futura memoria: quando ci stracceremo le vesti perché il trattato euro-atlantico di libero scambio - il celeberrimo Ttip - ci sta penalizzando, organizzando marce di protesta contro qualche invisibile complotto pluto-giudaico-massonico, dovremo anche ricordare che il capo della delegazione europea che segue i negoziati si chiama Paul Nemitz ed è tedesco. Che in quella delegazione non c'è nessun italiano. E che se anche ci fosse non saprebbe quali dovrebbero essere gli interessi nazionali che deve tutelare, quali settori promuovere, quali invece sacrificare. I tedeschi lo sanno. Ed è per questo che quando noi affondiamo loro galleggiano. E quando noi riemergiamo, loro volano.

Fonte: Linkiesta.it

sabato 14 febbraio 2015

L’Expo delle brutte figure. Prima ancora che inizi


Prima ancora di fare incetta di visitatori, Expo 2015 fa incetta di figuracce. L’ultima è stata quella dei rendering 3D per il Parco della Biodiversità, ma la serie è lunga: forse troppo, considerando l’eco internazionale che ha e avrà l’esposizione universale. Tra siti dai nomi maccheronici, traduzioni raffazzonate o inesistenti e cantonate grafiche, il rischio è che il maxi-evento da volano dell’immagine italiana nel mondo diventi un boomerang, mostrando il nostro Paese per quello che spesso è accusato di essere: approssimativo e inaffidabile.

Il caso dei rendering è emblematico. Pochi giorni fa, infatti, l’account Facebook ufficiale di Expo 2015 ha pubblicato alcuni rendering 3D del Parco della Biodiversità; le immagini avrebbero dovuto mostrare l’effetto finale dell’area espositiva di 8500 metri quadrati per la valorizzazione delle eccellenze ambientali e agricole italiane, ma in realtà mostrano grossolani errori di grafica digitale che saltano all’occhio persino dei non addetti ai lavori: scontorni approssimativi, figure fluttuanti nell’aria, prospettive e ombre non rispettate. E mentre in rete spopolano parodie e commenti indignati - specialmente da parte di grafici e creativi digitali - il realizzatore dei rendering ha scritto su Facebook che «sono state pubblicate immagini di un progetto in corso. Sono uscite anzitempo, non terminate. La rete è veloce, e ne ha fatto un meme, un argomento virale. Questo, in sé, non è ancora un male in quanto ci fa sentire sulla pelle quanta responsabilità abbiamo nel lavorare non tanto su “materiali digitali” - non è un problema di quanto si sa usare Photoshop - quanto sugli immaginari e le estetiche». Un errore, dunque? Probabile: ma un errore che in termini di immagine pesa parecchio, soprattutto considerando che la pagina Facebook di Expo 2015 ha quasi un milione di followers. 

Tanto più che il caso non è un unicum. Solo poche settimane fa il sito ufficiale di Expo 2015 ha annunciato la data dell’inaugurazione di Expo Gate: peccato che era segnato il 10 maggio 2014, anziché il 10 maggio 2015 (poi corretto), e che l’immagine di apertura dell’evento era - ed è tutt’ora - un collage grafico di pessima qualità, impreciso e sfocato. E poco allettante dal punto di vista estetico. Anche qui, valanga di commenti e un’analoga considerazione: l’imbarazzo di notare che una manifestazione della caratura di Expo 2015 non presta attenzione agli aspetti comunicativi e di immagine che, nell’epoca della comunicazione digitale, sono tutt’altro che secondari.

Eppure, se si guarda agli eventi e ai passi che stanno conducendo Milano e l’Italia verso Expo 2015, si nota che le figuracce non si fermano qui. Lo scorso 7 febbraio, ad esempio, all’Hangar Bicocca si è svolta la tavola rotonda internazionale “Idee di Expo”, con la partecipazione dei rappresentanti di molti dei paesi che parteciperanno all’esposizione universale incentrata sui temi della sostenibilità alimentare e ambientale: peccato che non fosse stato previsto alcun servizio di traduzione simultanea. Il risultato? Stranieri a bocca asciutta, trovatisi a partecipare ad una tavola rotonda completamente in italiano. E la problematica dell’Italia con le lingue straniere è emersa anche nella versione inglese e francese del sito ufficiale di Expo 2015, bocciata per numero di errori ortografici, frasi contorte, traduzioni maccheroniche (successivamente corretti).
E considerando che Expo è un evento di richiamo a livello internazionale, viene da chiedersi che immagine sta dando e darà l’Italia di sé nei mesi a venire e durante l’esposizione: il rischio è che la manifestazione fatta per valorizzare le eccellenze italiane nel mondo diventi una sorta di colossale “epic fail”. E dove non sono ancora arrivate le infiltrazioni della mafia, sembra che vogliano arrivarci gli addetti dell’immagine e dei rapporti internazionali.

Fonte: Diritto di critica

venerdì 13 febbraio 2015

L'Italia precipita dal 49° al 73° posto per la libertà di stampa

Brutte notizie dall'annuale classifica di Reporter Sans Frontiéres


La situazione della libertà di stampa nel mondo è in peggioramento secondo RSF ( Reporter Sans Frontiéres) e l’Italia riesce comunque a precipitare dal 49° al 73° posto della classifica stilata ogni anno dall’organizzazione che si batte per la libertà d’informare.


SIAMO TRA QUELLI PEGGIORATI DI PIÙ - Andorra è il paese che ha fatto peggio, perdendo 27 posizioni dal 5° posto in classifica al 32°, seguita da Timor Est che ha perso 26 posizioni, dal Congo che ne ha perse 25 e poi dall’Italia, che ha perso 24 posizioni finendo al 73° posto.

L’ITALIA DELLE INTIMIDAZIONI E DELLE QUERELE - A rovinare la già pessima classifica nel nostro paese sono state le aggressioni e gli atti vandalici ai danni dei giornalisti (43 aggressioni e 7 auto incendiate), ma anche e soprattutto l’impennata di denunce, cresciute dalle 84 del 2013 alle 129 nei primi dieci mesi del 2014. Denunce per lo più firmate da personaggi pubblici, con un robusto contributo dei politici, su tutti il Movimento 5 Stelle, che ultimamente distribuisce denunce come fossero caramelle. Una pratica che per RSF, e non solo, costituisce una censura almeno tentata e un’intimidazione e che non migliorerà certo se le nuove proposte di legge in materia di diffamazione dovessero vedere la luce così come sono state presentate in Parlamento.

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CHI MINACCIA I GIORNALISTI - Secondo RSF le maggiori criticità a livello globale scaturiscono dall’emergere di minacce da parte di attori non statali, come l’ISIS, ma anche dall’avanzare da leggi che puniscono la blasfemia e che insieme a quelle esplicitamente intitolate alla censura contribuiscono a silenziare al stampa. Non manca neppure la preoccupazione per la censura portata in nome della «sicurezza nazionale», che in molti paesi si traduce in censure, spionaggio illegale dei giornalisti, quando non in vere e proprie intimidazioni a colpi di violenze o di galera.

Fonte: Giornalettismo

giovedì 12 febbraio 2015

Tutti sono Charlie. E di Erri De Luca nessuno parla

Il processo a carico dello scrittore napoletano è cominciato lo scorso 28 Gennaio. È stato rinviato al 16 Marzo. L’accusa: istigazione a delinquere


In realtà, non è proprio così. Qualcuno che parla di Erri De Luca c’è: ma si tratta di blogger, piccoli siti, coraggiosi anti-sistema che s’arrampicano con le loro arringhe virtuali e provano a combattere i Mulini al Vento. Sulle grandi testate, di De Luca si parla quel tanto che basta per riempire uno spazio: che sta succedendo, perché, qual è l’accusa. Ci interessa oppure no.

Di Erri De Luca conservo i ricordi di quand’ero bambino, quando per la prima volta sfogliavo i suoi libri, piccoli, sottili, che potevo rigirarmi tra le mani e che mi incuriosivano per l’odore, per le parole che portavano stampate; per i bei colori delle copertine. Poi ci sono i ricordi dell’adolescenza, quando De Luca è diventato un maestro e anche un confidente – era lui, talvolta, a suggerirmi come dire una data cosa. E quindi quelli di oggi, quelli moderni: quelli che allo scrittore mischiano l’attivista, e alle sue parole associano il reato imputato. Il parallelismo, dovuto e sinceramente sentito da qualcuno, tra la storia di Erri De Luca, accusato di istigazione a delinquere, e quella di Charlie Hebdo è un pigrissimo esercizio di stile e di retorica, che riempie bene i titoli ma che, tirate le somme, non viene affrontato nel modo giusto.

Si parte da troppo lontano o da troppo vicino, e alla fine tutto quello che resta è un cartello: quello appeso, in decine e decine di copie, fuori dall’aula del tribunale nella quale De Luca sta venendo processato. Je suis Erri, e la voce si fa mantra, litania, preghiera, ecc. ecc
La questione, qui, è un’altra. Parliamo di un uomo, un poeta e scrittore, che ha detto una frase: la TAV va sabotata. E nel verbo sabotare De Luca è riuscito a trovare cento e più significati e sfumature, la resistenza democratica all’oppressore e la giustezza e l’importanza di certe posizioni che riprendono a piene mani l’anti-violenza di Gandhi.
La TAV va sabotata perché è stata imposta; perché non è condivisa, perché per essere costruita decine e decine di famiglie perderanno la casa, il lavoro, la terra. E che senso ha un’opera pubblica quando minaccia e colpisce la società? Il ragionamento non è così oscuro, e sinceramente l’istigazione al sabotaggio non è neppure così veniale come qualche magistrato potrebbe pensare. C’è un ragionamento, condivisibile o meno; e c’è la libertà di un uomo di potersi esprimere: non è una frase fine a se stessa, quella che De Luca ha detto; è la conclusione di un passaggio logico lineare e puntuale, che forse con l’istigazione di reato ha poco e niente a che fare.

Non c’è un richiamo all’intervento armato, alla lotta, alla violenza; c’è il passivo subire. Il sabotaggio si fa bloccando, fermando, imponendo la propria presenza. Sabota anche chi, semplicemente, evita il regolare svolgimento di un’attività: chi si mette davanti alle macchine in strada; chi allarga le braccia e rimane fermo, immobile, davanti all’ingresso di un negozio. Chi non fa (non compra, non accetta, non vota).

«La libertà uno se la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo, non dipende se uno fa bene il portiere e para i rigori»

Erri De Luca è l’operaio-scrittore, quello che più di ogni altro ha saputo dare voce a una fetta di società, alla classe dipendente, alla lotta contro il sistema e il “padrone”; Erri De Luca non è un sovversivo, non lo è nella stessa misura in cui essere sovversivi viene (male) interpretato nella pura e sfiancante illegalità dei gesti. Uno scrittore che non fa questo, che non diventa interprete e garante della sofferenza dei suoi lettori, non è uno scrittore che mira a cambiare qualcosa con la propria opera. E prima di essere uno che racconta le storie, De Luca è uno che le vive: è protagonista non solo voce. Le vuole vedere con i propri occhi le barricate, le manifestazioni, la rimostranze.
“La TAV va sabotata” e dal nulla nasce l’istigazione a delinquere.
Dimentichiamo l’atto dovuto della critica al più forte, dello sfottò del più povero contro il più ricco. Questa è la satira, ma è pure, più generalmente, la libertà di espressione. E in essa rientrano anche Erri De Luca e la sua dichiarazione, così come rientrano Charlie Hebdo e le sue vignette.
“La libertà uno se la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo, non dipende se uno fa bene il portiere e para i rigori”, scrive Erri De Luca ne “Il giorno prima della felicità”. Ed è vero: la libertà non è così scontata come si potrebbe pensare; è un valore attivo più che passivo. L’uomo nasce libero, cresce libero, ma potrebbe morire schiavo. E la schiavitù non è solo quella delle catene e del lavoro; è pure quella della mente, del pensiero, della fantasia. Un governo che ti dice – che ti impone – cosa puoi o cosa non puoi dire; chi ti accusa di istigare alla violenza e a commettere reato se al pensiero fai seguire la parola (e non l’azione); chi ti dice cosa puoi e cosa non puoi diventare, sono anche queste tante piccole forme di schiavitù. Di mancata libertà. E ora possiamo dire tutti quanti, io sto con Erri o je suis Erri. Ma non basta ripeterlo ad alta voce perché il nostro desiderio si realizzi. Qui è in gioco la libertà d’espressione, la stessa che ci siamo sentiti legittimati a difendere quando sono morte 12 persone nella redazione di Charlie Hebdo; la stessa che, ogni giorno, sputiamo in faccia a chi uccide, tortura, impone la propria fede all’altro. Invocare il sabotaggio è istigazione a delinquere? Allora lo è anche dire che non si è d’accordo, che alla tua idea oppongo la mia; che non accetto certe condotte, che la politica faccia talvolta malgoverno.

(testo di Gianmaria Tammaro, foto GettyImages)

Fonte: GQItalia.it

mercoledì 11 febbraio 2015

Di cosa hai paura?

Nell’ambito dell’inchiesta Global attitudes condotta nel 2014 dal Pew research center in 44 paesi, è stato chiesto 48.643 persone quale fosse secondo loro la principale minaccia per il mondo, scegliendo tra l’odio etnico e religioso, la disuguaglianza, l’aids e altre malattie, le armi nucleari, e l’inquinamento o altri problemi ambientali.

Le risposte sono state molto diverse a seconda dei paesi e delle regioni. In Medio Oriente è stato indicato l’odio religioso, mentre in molti paesi europei è prevalso il problema della disuguaglianza. In Africa, già prima dell’epidemia di ebola, la principale preoccupazione era dovuta all’aids e ad altre malattie infettive.


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martedì 10 febbraio 2015

Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle Foibe


Oggi, 10 febbraio, si celebra il Giorno del ricordo, una solennità civile nazionale italiana, istituita con la legge 30 marzo 2004 n. 92 in onore delle vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Tale legge è stata approvata «al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Non possiamo dimenticare un'altra brutta pagina della nostra storia.

Per approfondire: Massacri delle foibe (da Wikipedia)

lunedì 9 febbraio 2015

Terza Guerra Mondiale alle porte?


Di Salvatore Santoru

La contesa tra la NATO e la Russia in Ucraina rischia di trascinare seriamente il mondo in un nuovo conflitto armato, nella famigerata "Terza Guerra Mondiale" che per ora è stata combattuta solo in modo indiretto.

Oltre alla questione ucraina, tra i possibili "punti caldi" c'è da segnalare la Siria, dove a livello geopolitico si scontrano gli interessi degli States e dei regimi del Golfo, schierati con l'opposizione, e la Russia, schierata con Assad insieme all'Iran.


L'Europa si trova divisa a metà, in quanto buona parte della classe dirigente dell'UE è schierata con gli States, alcuni paesi come la Grecia e in parte la Germania e la Francia si stanno avvicinando alla Russia.


Da non sottovalutare ovviamente il fenomeno dell'ISIS, l'organizzazione terroristica emersa dalle frange più radicali e islamiste dell'opposizione siriana, diventato in seguito un vero e proprio stato, che sta cercando di conquistare il Medio Oriente e il Nord Africa, e sembra possa attaccare anche l'Europa.


A livello più generale c'è da dire che sostanzialmente questo ipotetico nuovo conflitto, per ora fortunatamente solo indiretto, a livello geopolitico vedrebbe contrapposti gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati a quelli della Russia, della Cina e dei loro alleati, mentre a livello culturale e religioso rifletterebbe, nell'area mediorientale, un conflitto all'interno dell'Islam ( paesi sunniti come l'Arabia Saudita e il Quatar contro sciiti come l'Iran e la Siria ), e in seguito molto probabilmente tra mondo islamico e ebraico, "latente" ma nemmeno tanto conflitto che vede in quello palestinese/israeliano la sua più diretta emanazione.


Sperando che queste ipotesi non si concretizzino come scritto, staremo a vedere.

Fonte: Informazione Consapevole